venerdì 28 marzo 2014

Dello svedese, o dal racconto al fumetto



Christophe Gaultier, Lo Svedese, Coconino, Bologna 2013
Prima edizione francese: Le Suédois, Futuropolis, 2009


Come quasi tutti, non amo quando un'opera viene trasposta da un mezzo artistico a un altro. Di solito avviene fra romanzi e film, quadri e film, fumetti e film. Ma può anche capitare da un romanzo a un fumetto: e in questi casi, schiava dei miei sciocchi pregiudizi, solitamente evito la lettura. Qualche settimana fa però ho trovato in biblioteca Lo svedese, di Gaultier. L'ho preso perché mi piaceva la copertina - e perché qualcuno alcuni mesi fa mi ha detto che sono una ragazza Coconino, e ora se un fumetto è Coconino mi sento obbligata a verificare se mi piace davvero oppure no.


Che Lo svedese fosse tratto da The blue hotel di Stephen Crane l'ho scoperto solo a casa, aprendo il fumetto alle prime pagine. Fra l'altro, l'indicazione recita: "Libero adattamento dal romanzo The Blue Hotel", anche se in realtà si tratta solo di un racconto di una ventina di pagine (che potete trovare liberamente su internet: ad esempio qui o su Project Gutenberg). Il risultato è stato che mi sono stupita che un romanzo intero potesse essere contenuto in 94 tavole di fumetto, e sono partita ancora più prevenuta.

Ovviamente mi sono dovuta ricredere: il fumetto mi è piaciuto! La storia, quella di uno svedese che nel 1898 arriva in paese sperduto del Nebraska, mi ha ricordato le atmosfere dei primi racconti di Lovecraft, quelli ambientati in cupe città portuali, prima che Chtulhu e antichi vari facessero la loro prepotente entrata. Mi ha fatto venire voglia di leggere il racconto originale.




Già alla prima lettura mi sono stupita della fedeltà del fumetto al testo - vi ricordo che all'inizio si parlava di "libero adattamento". La trama è sostanzialmente identica, senza aggiunte o tagli di episodi (con l'eccezione dell'epilogo, omesso), e alcune citazioni sono praticamente letterali: le bacinelle con l'acqua così gelida da bruciare a p.12, un "si crede all'inferno" a p.65. Ci sono delle differenze arbitrarie di cui non ho ben capito il senso: perché cambiare i nomi a tutti i personaggi? L'albergatore, Scully nel racconto, diventa Lulloch nel fumetto, il figlio Johnnie si trasforma in Nathaniel, il cowboy Bill diventa Aaron Graw.

Ma quello che cambia davvero, e che rende le due storie sostanzialmente diverse, è il modo di narrare - che ovviamente è collegato al mezzo artistico usato. Nel racconto, Crane indugia poco nella descrizione degli ambienti, e per nulla nella psicologia dei personaggi: il narratore è totalmente esterno, stati d'animo ed atmosfere sono affidati al comportamento dei personaggi. Ho adorato la frase in cui si dice che "i 3 gentiluomini se ne stavano come fra sconosciuti" (traduzione mia, un po' alla buona). Si tratta di aspetti che è molto difficile riprodurre in un fumetto. Come rendere, in una vignetta, quello stare fermi leggermente imbarazzati, con le mani in mano a tormentarsi, guardandosi intorno con l'espressione interrogativa ma paziente, in attesa che qualcun altro agisca? Non metto in dubbio che qualche talentuoso disegnatore possa riuscirci. Ma lo stile di Gaultier non si presta a rendere queste finezze: il tratto a pastello graffiato è molto più adatto alle espressioni forti. Che vengono ampliamente utilizzate. Ai volti dei personaggi, che nel racconto non vengono mai descritti, e ai colori di sfondi indefiniti è affidato il compito di trasmettere le sensazioni indescrivibili. Così, forzatamente, lo svedese si trova ad avere fin dall'inizio un ghigno inquietante - mentre Crane lo aveva descritto come tremante e dall'"occhio veloce". Nella prima parte del fumetto tutti i comportamenti dello svedese sono enfatizzati, rispetto all'originale: sembra quasi di sentirlo ridere in maniera folle... 



Gaultier sceglie consapevolmente di portare avanti la propria interpretazione del personaggio, e lo caratterizza ulteriormente, con tratti che sono vere e proprie modifiche della trama: gli lascia ad esempio indossare, per tutta la giornata e all'interno della locanda, la sua pesante pelliccia da viaggio (gli altri ospiti si liberano invece dei cappotti). Non importa quanto la stufa scaldi l'ambiente e renda rossi gli sfondi; fino al momento in cui il rosso migra, e non è più calore della stanza, ma rappresentazione del delirio. Questo è il vero culmine della personale interpretazione di Gaultier: per lo svedese si adotta una visualizzazione soggettiva, con i commensali che appaiono come lupi famelici. Ovviamente la visione non ha riscontro nel racconto di Crane.

Queste scelte di narrazione, nonostante la sostanziale identità di trama, sono sufficienti a modificare la storia (va detto che manca anche l'epilogo, in cui Crane fornisce un accenno di interpretazione di quanto accaduto). Quando si finisce la lettura del fumetto, si è convinti di aver intuito la mano di qualcosa di sovrannaturale, forse del destino; mentre in realtà il racconto di Crane si avvicina più a quelli di Melville che alle opere di Lovecraft. In quelle 20 pagine americane di sovrannaturale non c'è nulla: ci sono le scelte degli esseri umani, le casualità, l'intuito e la paura. C'è il senso di una sequenza di eventi ineluttabile solo perché incompresa. Il fumetto, con il suo tratto violento, i suoi dettagli per forza differenti, racconta necessariamente un'altra storia: ed è per questo, per non aver voluto tradurre ma trasporre, che funziona a sua volta.



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